Articoli su Giovanni Papini

2001


Giovanni Messina

rec. Un uomo finito (1912)

Pubblicato in: italialibri.net
Data: 23 maggio 2001




Leggendo le prime pagine del romanzo di Papini si può avere la sensazione di un autore che, ormai vecchio, ripercorre le varie tappe della propria vita, e per il tono autocelebrativo e per la distanza che sembra mettere tra sé e gli eventi. In realtà, Papini scrisse Un uomo finito nel 1912, e aveva da poco superato i trent’anni.

Era, dunque, nel pieno della sua attività di pubblicista e doveva ancora esplodere la sua campagna di interventista destinata a culminare nel famigerato «caldo bagno di sangue nero». Anche il titolo è ingannevole. «Qui dentro c’è un uomo disposto a vender cara la sua pelle e che vuol finire più tardi che sia possibile». Se, piuttosto, qualcuno mi vorrà considerare finito, dice l’autore alla fine del libro, è «perché volli incominciare troppe cose e non son più nulla perché volli esser tutto».

L’opera si compone di 50 capitoli scanditi in 6 parti che come in una partitura vogliono rendere il variare degli stati d’animo delle diverse epoche raccontate (andante, appassionato, tempestoso, solenne, lentissimo, allegretto). Si tratta di una sorta di biografia intellettuale di uno spirito «nato con la malattia della grandezza». Un ragazzo schivo e scontroso che si getta nello studio alla ricerca di un riscatto. La diversità diventa motivo di orgoglio, e fa da molla alla folle rincorsa (che è un po’ la trama del romanzo) dell’enciclopedismo prima, e di un’opera che superi Dante e Shakespeare in seguito.

«Credevo sul serio di essere l’unico spirito senza pregiudizi e senza paraocchi; senza falsità, sciocchezze e bestialità in testa; il solo capace di sbandire gli inganni e di buttar giù gli usurpatori; di spopolare l’intero walhalla dei vecchi dei e degli idioti moderni; di spogliare ogni cosa, ogni idea, dai ruffianeschi veli dell’abitudine, e della convenzione; di liberare l’umanità da tutte le obbrobriose servitù mentali che la impastoiano. Volevo liberare (cioè, secondo l’idea mia, aiutare) quelli stessi che disprezzavo e li disprezzavo appunto perché non eran liberi e appunto perché erano spregevoli volevo liberarli… Ma non volevo destarli colle buone e colle carezze: bensì squassandoli e pigliandoli per il petto e sbattendoli contro il muro perché dall’ira e dalla vergogna di quel rude risveglio venisse fuori uno scatto di energia, una mossa sdegnosa di virilità».

Se, da un lato, nella parte iniziale le prime cose che colpiscono sono il tono enfatico e le continue iperboli, dall’altro, emerge più avanti, a tratti, un desiderio, più intimo, di confessione, dell’«ebreo errante del sapere» che vuole pervenire a un bilancio della propria esistenza. Il “lentissimo” della seconda parte del romanzo, che probabilmente racchiude le pagine migliori. Qui affiora lo scoramento per un obiettivo impossibile da conseguire, per gli anni trascorsi nel «succedersi di ambizioni enormi e rinunce precipitose», un sentimento ben riassunto nella citazione di Michelangelo: «Non nasce pensiero in me che non porti sculpita la morte». Ma si tratta di momenti che durano poco e non riescono ad assumere continuità narrativa.

Anche in queste occasioni, che dovrebbero rappresentare la parte più autentica del lavoro di scavo interiore, l’autore conserva il suo stile alto e magniloquente, e ciò, a distanza di tanti anni soprattutto, conferisce a quelle pagine una nota di esagerazione compromettendone la credibilità. Vanno riconosciuti all’autore l’elegante facilità della lingua, l’originalità delle immagini, i brillanti neologismi e la spigliatezza del discorso, sennonché si tratta di qualità che spesso sembrano sfuggirgli di mano e procedere per moto proprio in evidente contrasto col tono che vorrebbe avere il narrato.

In questo furioso correre da un autore all’altro, in questo frettoloso saltare da una filosofia all’altra, tra adesioni incondizionate e altrettanto incondizionati dietro-front, non ci può essere ovviamente spazio per l’amore. Papini vi dedica un capitolo, ma come chi va di fretta e non ha nessuna voglia di indugiare. Ci sono state donne nella sua vita, ma nessuna Beatrice e nessuna Circe. «La storia interna della mia anima non è stata né arricchita né cambiata per via della loro presenza. Non mi lamento: tutt’altro. Ho dato perché potevo dare e m’è rimasto parecchio – il più – per me. E a loro non ho chiesto nulla per il mio spirito – e nulla potevan darmi. So benissimo che la donna è, per sua essenza e necessità, una parassita, una sfruttatrice, una ladra. Io l’ho accettata com’è e l’ho presa com’è fatta e mi son fatto derubare e ho pagato puntualmente i miei tributi».

Il romanzo, che nell’arco di quarant'anni ebbe più di venti edizioni, fu una specie di bibbia per molti giovani degli anni ’20 e ’30. Oggi, però, la sua lettura risulta piuttosto impegnativa. Per quanto scritto dopo romanzi come Il fu Mattia Pascal o Senilità, sembra precederli di decenni. Gli stessi romanzi di D’Annunzio, nel cui solco si colloca, conservano senz’altro maggiore freschezza. Un uomo finito va necessariamente contestualizzato, e può essere letto come un’importante testimonianza della cultura italiana negli anni che coincisero con l’avvento del fascismo. Sicuramente contribuisce a farsi un’idea di un certo tipo di intellettuale dell’epoca, malato di dannunzianismo, turbato dalle filosofie irrazionaliste di primo Novecento e animato da un’ansia di ribellione che fatica a trovare i canali adeguati per esprimersi.


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